Archivio mensile:Settembre 2013

Un lavoro ben fatto.

Oggi abbiamo visitato una mostra sulla costruzione del Duomo di Milano e ho avuto modo di comprendere una particolarità che, pur conoscendo ed amando la mia cattedrale,  che mi era sfuggita.

Le guglie e  i pinnacoli sono decorati con minuscole immagini di animali, scimmiette e topolini che sembrano arrampicarsi lungo le architetture di marmo, foglie e fiori che avvolgono le strutture di sostegno, volti che occhieggiano tra le volute scolpiti con infinita precisione e con un’attenzione meticolosa ai particolari, immagini che non solo sono invisibili per chi cammina intorno all’edificio, ma che sfuggono anche a chi si avventura sul tetto e si fa catturare dall’armonia delle guglie e dalla bellezza delle statue che le decorano o dal panorama della città laggiù in basso o delle montagne avvolte nella foschia.

Che cosa ha spinto gli antichi operai ad impegnarsi in una profusione di piccolissime figure che non avrebbero probabilmente recato loro ammirazione e gloria?

Innanzitutto erano spinti dalla consapevolezza di creare un’opera perfetta che avrebbe reso gloria a Dio, ma non solo, sicuramente c’era un’altra componente non meno importante: l’orgoglio di un lavoro ben fatto, la coscienza della propria maestria e il desiderio di dimostrare a se stessi il proprio valore.

Milano

 

Un aiuto per il viandante.

Sono stata assente per un po’ di tempo, il tempo trascorso in ospedale a fianco di mio marito che ha affrontato l’ennesimo intervento chirurgico al cervello (con esito  positivo, grazie al cielo).

Le ultime due settimane sono state equamente divise tra la scuola, la stanza d’ospedale e la tangenziale o la cassanese (la provinciale che mi consente di tornare a casa quando la tangenziale è bloccata) o la metropolitana.

Per quanto stanca o preoccupata di solito in metropolitana leggo un libro, mentre in auto mi guardo intorno (soprattutto considerato l’andamento lento delle strade negli orari di punta) e osservo le architetture, la gente, i cartelloni pubblicitari.

In questi giorni, appunto, mi ha colpito un cartello (o meglio, una serie di cartelli) che troneggia, in tutto il suo splendore, tra Gorgonzola e Gessate: un cartello su cui campeggia la sagoma del Castello Sforzesco con la scritta “Sei in Lombardia”.

Ora, visto che la zona si trova in una posizione quasi centrale nella mia regione, mi chiedo a cosa serva: un turista, anche il più distratto, arrivato da quelle parti dovrebbe essersi reso conto, da lunga pezza, che si tratta del territorio lombardo (a meno che non sia completamente sciroccato).

A uno straniero non serve a molto, visto che il cartello è scritto solo in italiano.

Potrebbe al limite servire ad un paracadutista che si trovasse ad atterrare fortunosamente in quel di Gessate, o a un pilota di qualche Ufo deciso ad invadere il nostro pianeta (ma in questo caso non mi sembra furbo fornirgli indicazioni, anche se generiche).

Infine potrebbe essere utile a qualche autista affetto da attacchi di amnesia.

In fin dei conti tutto l’affare mi sembra un discreto spreco di denaro (immagino pubblico).

Fiammiferi.

Oggi primi passettini di storia in prima media: parliamo di storia recente e di storia molto lontana per capire che, comunque, la storia si costruisce attraverso le fonti, i documenti, le testimonianze.

Parliamo della storia recente del territorio di com’era il paese in cui viviamo , delle case dei nonni dove non c’era la luce elettrica, l’acqua corrente, il gas e mi rendo conto che i ragazzini fanno fatica a visualizzare la scena.

Qualcuno mi chiede come facessero a cucinare  io spiego che in ogni casa c’era il focolare  che il fuoco veniva acceso con i fiammiferi (non sbattendo due pietre o strofinando legnetti come pensavano i pargoli).

Mi rendo conto che la parola “fiammiferi” è ignota ai più e mi sforzo di chiarire di che cosa si tratti, ma non li vedo convinti.

Evidentemente nessuno ha mai letto loro “La piccola fiammiferaia” (fiaba peraltro poco gettonata visto che è priva di lieto fine).

Mi chiedo come avrebbero reagito se avessi parlato di “zorfanelli”

Non è vero, ma…

Non sono superstiziosa, non credo che ci siano giorni fortunati e giorni sfortunati, non credo che il nostro destino sia legato a numeri e cabale varie, ma se fisso un esame di controllo per venerdì tredici settembre, e l’esito è preoccupante, mi passa un brivido per la schiena.

Mi piacerebbe dare la colpa ad un maledetto venerdì se l’incubo ricomincia, se passerò i prossimi pomeriggi in una camera d’ospedale con il sorriso rassicurante sulle labbra  e con un nodo nero nel cuore, se perderò un sacco di tempo in metropolitana o ferma in tangenziale sotto il diluvio per andare o per tornare da quella camera d’ospedale, ma la colpa non è del calendario, la colpa è della malattia subdola che da dieci anni ritorna, puntualmente, quando sembra debellata, che non dà tregua.

Ora di nuovo è il momento del coraggio e della lotta, è il momento dell’attesa e della speranza, è il momento della condivisione e della solitudine, la solitudine di ciascuno di noi con la nostra paura, con il nostro dolore.

Insegnare la memoria.

Quarant’anni fa avveniva il colpo di stato in Cile, le truppe di Pinochet attaccavano la Moneda e Salvador Allende moriva in circostanze ancora non chiarite.

Dodici anni fa avveniva l’attentato alle Torri Gemelle.

I ragazzi che entreranno domani in prima media non erano neppure nati e i loro testi di storia, così poco attenti alle vicende contemporanee, ne parlano molto sommariamente e poi, a dire le cose come stanno, è difficile alla fine della terza, tra guerre mondiali, viaggi d’istruzione, preparazione delle prove Invalsi, feste comandate ed elezioni, arrivare a trattare gli ultimi decenni di storia.

E’ un vero peccato perché è indispensabile conoscere il passato (anche quello recente) per capire il presente.

Ciò che non si insegna.

Oggi al parco ho assistito ad una scena di vita quotidiana che mi a fatto pensare.

C’era una bimba piccolissima, forse di meno di tre anni, che si aggirava alla scoperta del prato, sotto lo sguardo attento della nonna, soffermandosi con gridolini di gioia ad osservare i fiori gialli di tarassaco (quelli più normali e  un po’ anonimi che punteggiano i nostri prati).

Ad un certo punto ha allungato la manina e ha raccolto un fiorellino con lo stelo corto corto, come di solito fanno i bambini che hanno più interesse per la corolla e poi, tenendolo con somma attenzione, lo ha offerto alla nonna chiedendole, con un sorriso: “Sei felice?”.

La nonna è rimasta senza parole, ma si vedeva che non stava nella pelle per la gioia.

Io ho osservato la scena da lontano e mi sono soffermata a chiedermi se è possibile trasmettere ad una bimba così piccola lo stupore per i colori, per le forme.

Forse si può insegnare ad affinare il gusto per la bellezza, ma la sensibilità e la gioia del dono non si insegnano.

Uno deve averle dentro.

tarassaco

 

Strade.

Amo le strade di montagna che si inerpicano su per i pendii con tornanti stretti, mi piace percorrerle e spiare, ad ogni svolta, il panorama che si spalanca, i paesi che diventano sempre più minuscoli in fondo alla vallata.

Mi piace attraversare i boschi che via via si diradano lasciando spazio ai pascoli punteggiati di minuscoli casolari raggruppati, di piccoli specchi d’acqua, di ciuffi di rododendri e di erica.

Sono strade tortuose, strette, faticose, ma alla fine rivelano le vette in tutta la loro superba imponenza e regalano la vista del mondo dall’alto.

Mi piacciono queste strade perchè sono un po’ come la vita: non sempre facile, non sempre in discesa, ma che può regalare attimi di pura bellezza e di ampio respiro.

Passo Ca' San Marco

Come le formichine.

A pochi giorni dall’inizio dell’anno scolastico giornali e telegiornali tornano a battere sul tasto dolente e un po’ trito dei costi relativi all’acquisto dei libri e del materiale scolastico.

Vale la pena di ricordare alcuni punti fermi:

I libri si possono acquistare anche usati, l’importante è insegnare ai figli e gli allievi che i libri di testo vanno conservati con cura e attenzione: non è indispensabile distruggerli, non è consigliabile eseguire gli esercizi con la penna (spesso per la pigrizia di cercare una matita), non è furbo dimenticarli sotto il banco.

Così facendo, alla fine dell’anno, sarà più facile riciclarli.

Va inoltre ricordato che, ormai in molte scuole, alcuni testi vengono solo consigliati (non è quindi obbligatorio acquistarli) perchè spesso vengono sostituiti da altri materiali approntati direttamente dagli insegnanti.

Oltre ai libri bisogna procurarsi quaderni, diari, matite, compassi, squadre e righelli, zainetti più o meno rotellati, tempere, pennelli eccetera eccetera: ora è evidente che non è indispensabile che tutti i materiali siano rigorosamente griffati, ma devono essere robusti e di buona qualità per poter durare per tutto l’anno (e perchè no? per tutto il triennio).

Anche in questo caso va spiegato ai ragazzi che devono avere cura dei loro materiali, non devono maltrattarli, non devono perderli, devono riporli (per esempio per quanto riguarda i pennelli e i colori) nelle loro custodie, ben puliti e ordinati.

Per esperienza so che i ragazzi sono abbastanza insofferenti all’ordine e al metodo, ma bisogna far loro capire che i materiali hanno un costo (talvolta elevato) e che la cura ne prolunga la vita, anche molto a lungo.

Infine i ragazzi devono essere abbigliati con indumenti comodi, puliti e dignitosi quindi non è indispensabile la maglietta griffatissima o la scarpa all’ultima moda, così come non è indispensabile il telefonino miliardario (che, tra l’altro, a scuola sarebbe proibito).

Per concludere: è indiscutibile che la scuola rappresenti un investimento oneroso per le famiglie, ma è indispensabile che i ragazzi imparino a fare tesoro di libri, materiali e insegnamenti e che diventino responsabili di quanto viene loro affidato, non come se tutto fosse loro dovuto gratuitamente.

In fondo i nostri genitori si comportavano proprio così.

Neologismi.

Dematerializzazione è il vocabolo che gira a scuola in questi giorni, dematerializzazione è un vocabolo un po’ inquietante (la somiglianza con “smaterializzazione” è fin troppo evidente) che, in buona sostanza, per noi significa la scomparsa del buon vecchio registro cartaceo sostituito dal registro digitale.

Dematerializzazione significa risparmio di carta e inchiostro (sembra poca cosa, ma provate a moltiplicare il poco per tutte le scuole italiane).

A prima vista potrebbe sembrare una cosa buona e giusta se, per esempio, nel nostro istituto la connessione wi-fi funzionasse in modo decente e non si incontrassero nei corridoi personaggi con lo sguardo spiritato e il tablet o l’iphone proteso verso il cielo in cerca di non si sa bene cosa.

Sarebbe un’innovazione geniale se i computer posizionati in ogni classe (per gestire le lim) non fossero antidiluviani e dalla vita precaria (forse più precaria dei docenti precari stessi).

Ho l’impressione che, per quanto mi riguarda, la dematerializzazione significherà annotare su fogli e foglietti assenze e voti e poi aggiornare il registro a casa, alla sera, con il mio pc e la mia connessione.

Perchè ho sempre l’impressione che, nella scuola italiana, si vogliano fare le nozze con i fichi secchi?

La casa.

Il nuovo televisore parla!

“Che scoperta” dirà qualcuno “i televisori hanno sempre parlato, anche quando funzionavano a valvole parlavano, magari si vedevano male, ma si facevano sentire”.

In realtà il nuovo televisore parla nel senso che ti racconta, con una voce un po’ spettrale e anonima (da navigatore per intenderci), che hai cambiato canale, che programma stai guardando e quando finirà.

Mi fa un po’ impressione, a dir la verità, tanto che ho disattivato subito la funzione, ma ho il dubbio che non sia contento, un po’ come quando decidi di non seguire le indicazioni del navigatore e lui (anzi lei) con voce seccata (almeno a me sembra così) ti incita ad invertire il senso di marcia (appena possibile).

Il televisore parlante mi ha fatto pensare, con un brivido, alla casa descritta nel racconto “Cadrà dolce la pioggia” contenuto in “Cronache Marziane” di Ray Bradbury: la casa completamente automatizzata che sopravvive, intatta, all’olocausto nucleare e continua a funzionare alla perfezione anche se non c’è più nessuno che la abiti, la casa in cui i dispositivi continuano a dialogare tra loro, la cucina continua a preparare cibi, la tavola continua ad apparecchiarsi, una voce continua a leggere la favola della buona notte e poi le luci si spengono.

Non sono contraria al progresso tecnico, ma quella voce in salotto mi inquieta appena un po’