Archivio mensile:Gennaio 2013

Il futuro negato.

I dati più recenti disegnano una situazione allarmante: negli ultimi dieci anni (più o meno a parità di popolazione) gli iscritti alle Università italiane sono calati di cinquantamila unità (fonti qui e qui).

Per rendere l’idea del crollo delle iscrizioni i giornali paragonano il fenomeno alla scomparsa di un intero ateneo come la mia gloriosa Università Statale di Milano.

Tra le cause probabili c’è sicuramente l’aumento delle tasse d’iscrizione, ma non va neanche sottovalutato il taglio drastico alle borse di studio e a molti corsi.

Al fondo, tuttavia, si delinea una situazione più preoccupante: temo che molti giovani rinuncino all’università perchè ormai neppure gli studi di alto livello possono garantire uno sbocco professionale adeguato.

La mia generazione, quella nata subito dopo la guerra, si avvicinava con timore riverente agli studi universitari, ma c’erano le borse di studio (io ho vissuto di presalario per quattro anni), c’era la prospettiva di accedere alla professione per cui ci si era preparati, c’erano docenti illustri come i maestri con i quali ho studiato letteratura latina, storia romana e storia moderna (per esempio), c’era la sensazione di potersi costruire un futuro migliore di quello dei nostri genitori.

Forse è proprio questo che manca ai nostri ragazzi (e al nostro Paese): la prospettiva del futuro.

Milano

 

 

Darsi alla fuga.

Verso la fine del quadrimestre in sala professori aleggia un desiderio di fuga e io non faccio certo eccezione: ci si affretta a correggere le ultime verifiche, ci si immerge in estenuanti interrogazioni nel tentativo di “salvare”  situazioni poco brillanti  (i ragazzi sembrano accorgersi tutti all’ultimo momento che rischiano qualche insufficienza che potrebbe rovinare l’estetica della pagella), e poi ci sono gli scrutini con il loro corredo inevitabile di voti, discussioni, ripensamenti perchè valutare non è sempre un’esperienza indolore.

Per questo c’è intorno un desiderio di fuga.

Poi un’occhiata al calendario mette in evidenza un succoso “ponte” carnevalesco: un venerdì che annesso al sabato e alla domenica (giorni in cui, per ora almeno, non si fa lezione) realizza “ben” tre giorni di vacanza.

Non è molto, in verità, ma può bastare per staccare la spina e andare da qualche parte: un bel viaggio in Cina, per esempio, o una crociera nel Mediterraneo, o una puntatina in Nuova Zelanda oppure, più realisticamente, tre giorni di cioccolate e caminetto in montagna.

Probabilmente sarà una fuga a corto raggio, ma ad alta intensità di dormite.

Lassa pur ch’el mund el disa.

“Ma Milan l’é on gran Milan”, cantava Giovanni D’Anzi, perdutamente innamorato della sua (e della mia) città che si allarga in mezzo alla pianura all’ombra della Madonnina.

Chissà cosa avrebbe scritto e cantato aggirandosi ai piedi dei nuovi grattacieli, chissà quale sorridente affettuosa ironia sarebbe scaturita dai suoi versi?

Dite pure quel che volete, ma la Unicredit Tower (per intenderci il grattacielo che sorge davanti alla stazione Garibaldi, riconoscibile da lontano per l’aguzzo pinnacolo) mi piace, ma soprattutto mi piace la piazza interna, coperta da un velo d’acqua, lucida di vetri e di ottoni che dà un po’ l’impressione (solo l’impressione, per carità) di aggirarsi nel quartiere della Défense di Parigi.

Mi piace questa mia città che riesce sempre ad armonizzare il nuovo e l’antico in un gioco di giustapposizioni ardite e mai banali.

Mi piace.

O forse sono anch’io perdutamente innamorata di Milano e riesco a trovarle solo pregi.

Milano

Il muro di gomma.

Qualche volta, a bordo di un aereo in volo, magari in mezzo a una turbolenza, per un attimo, ma solo per un attimo, si mette in conto che possa capitare un incidente, dovuto ad un cedimento strutturale o a un errore umano, il pensiero ci sfiora, ma lo scacciamo subito in un angolo della mente, confortati da innumerevoli dati statistici e da un po’ di scaramanzia.

L’incidente può accadere, ma che un aereo cada per un’azione di guerra in tempo di pace non è accettabile e non dovrebbe essere neppure immaginabile.

Oggi il tribunale ha sentenziato che la sera del 27 giugno 1980 c’era una uno scenario di guerra nel cielo di Ustica che l’aereo è stato abbattuto da un missile e lo Stato, che non ha saputo tutelare la sicurezza dei cittadini a bordo di quel volo maledetto, ora deve risarcire i parenti delle vittime.

Ora allo Stato si chiede un sussulto d’orgoglio: è indispensabile che si accerti la nazionalità del missile che ha abbattuto il Dc-9 I-Tigi Itavia.

E’ un frammento di verità che, almeno in via ufficiale, ci manca e che va appurata con determinazione e serietà: lo dobbiamo alle vittime e ai loro cari.

Non solo….

Ricordare significa anche mettere ordine tra i ricordi.

Spesso “il giorno della memoria” ci porta a focalizzare l’attenzione soprattutto sulle vittime di religione ebraica che furono la stragrande maggioranza, ma non possiamo dimenticare:

Asociali

Sinti e Rom

Testimoni di Geova

Omosessuali

Detenuti politici

Immigrati e Apolidi

Criminali comuni

 

Scarpette rosse.

Leggere per conoscere, per capire, per riflettere, per ricordare anche se fare memoria può essere doloroso e terribile.

Sicuramente l’indifferenza, la negazione e l’oblio sono colpevoli.

C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica
Schulze Monaco
c’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio di scarpette infantili
a Buchenwald

più in là c’è un mucchio di riccioli biondi
di ciocche nere e castane
a Buchenwald
servivano a far coperte per i soldati
non si sprecava nulla
e i bimbi li spogliavano e li radevano
prima di spingerli nelle camere a gas
c’è un paio di scarpette rosse
di scarpette rosse per la domenica
a Buchenwald
erano di un bimbo di tre anni
forse di tre anni e mezzo
chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni
ma il suo pianto lo possiamo immaginare
si sa come piangono i bambini

anche i suoi piedini
li possiamo immaginare
scarpa numero ventiquattro
per l’eternità
perché i piedini dei bambini morti non crescono
c’è un paio di scarpette rosse
a Buchenwald
quasi nuove
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole…

Joyce Lussu

Giornata della Memoria 27 gennaio 2013

Quei politici venuti dallo spazio.

Mi innervosisco sempre quando leggo, nei commenti ai post o nei social network, giudizi atroci sui politici (su tutti i politici indistintamente), maledizioni, auguri degli accidenti peggiori, espressioni moderate della serie “al rogo” o “impicchiamoli tutti” che ricordano un furore da tumulto del “forno delle grucce“.

Spesso chi si accanisce con furore si dimentica che la nostra classe politica non è fatta di omini verdi scesi or ora da un’astronave o da voraci e infidi “visitors“, ma da figli di questa società della quale anche noi facciamo parte e che (purtroppo) rispecchiano in modo fedele.

Mi rifiuto di credere (e penso che sia statisticamente improbabile) che solo i peggiori di noi si dedichino alla politica o che anche gli elementi migliori, una volta arrivati al potere, subiscano una trasformazione stile mister Hyde; più realisticamente immagino che ci siano anche tra i politici persone per bene e persone per male, così come tra noi c’è chi è onesto e chi, se può, tende a sfuggire ai propri doveri, a esempio, di contribuente.

A molti di noi è sicuramente successo che un artigiano o un professionista ci propongano un doppio preventivo (con e senza i.v.a.) che il gestore del ristorante o del bar si dimentichi lo scontino o, casualmente, lo batta per un importo inferiore, che ci venga la tentazione di assumere la colf o la badante in nero.

Se ci è successo e abbiamo assecondato l’andazzo, probabilmente, se andassimo a sedere sui banchi del Parlamento, ci comporteremmo come coloro che stigmatizziamo con tanta rabbia.

Personalmente mi sforzo (e mi impongo) di comportarmi nel modo più corretto possibile e quindi, quando ho votato per le primarie, ho scelto persone che conosco personalmente e delle quali conosco la correttezza e il rigore.

Se resterò delusa, se veramente non si può andare al mulino senza infarinarsi chiederò conto ai miei rappresentanti dei loro comportamenti, ma, almeno fino a prova contraria, mi rifiuto di considerare tutti uguali (e tutti ladri).

Piccoli passi.

Sono passi brevi e un po’ lenti quelli che facciamo, son passi quasi contati, i passi di uno stesso percorso ogni giorno uguale al giorno prima e, probabilmente al giorno dopo.

Appena usciti dal cancello svoltiamo a destra, percorriamo il marciapiede poi facciamo una breve sosta al bar per concederci un caffè seduti al tavolino, poi la strada ci porta al negozio dove acquistiamo il pane e all’edicola, poco lontana, dove recuperiamo il giornale, il ritorno è sempre attraverso la piazza e lungo la recinzione del parco.

Qualche volta, raramente, facciamo una piccola deviazione quasi per metterci alla prova.

Ogni giorno sono gli stessi passi, qualche volta più sicuri, qualche volta più incerti, ma siamo sempre fianco a fianco, siamo sempre insieme, da più di quarant’anni.

Non m’importa di cambiare il percorso se, per farlo, devo camminare da sola.

Cavenago di Brianza

Laggiù, all’orizzonte.

Ci sono giornate come quella di oggi, frenetiche da togliere il respiro, piene di impegni: la scuola, innanzitutto, e poi il giro veloce per negozi perchè non si può restare senza pane, latte e giornale (il minimo sindacale), e poi una corsa in ospedale per una visita di controllo di mio marito, una veloce puntata in cucina e, mentre la pasta cuoce, c’è il bucato da stendere, il letto da rifare, mangio velocemente seduta sul bordo della sedia e poi, dopo aver caricato la lavastoviglie, si torna a scuola per i prescrutini, tra una riunione e l’altra faccio una scappata a trovare mia madre, scambio qualche chiacchiera con lei e poi torno a scuola per incontrare i genitori delle quinte (in agitazione per la fatidica iscrizione online).

Quando le venti sono suonate da un pezzo mi trascino in cucina, mettere in tavola del cibo commestibile richiede una fantasia e un entusiasmo che faccio fatica a reperire (il frigorifero ne è sprovvisto), non ho molto appetito, più che altro aspiro ad un divano comodo.

La giornata è stata lunghissima e intensa e solo raramente ho avuto la possibilità di alzare lo sguardo da terra, dai fornelli, dalle sudate carte, ma c’è stato un momento, mentre l’auto correva sulla tangenziale, in cui scrutando l’orizzonte ho visto le mie montagne, ammantate di neve, sbucare tra le nuvole e innalzarsi ai bordi di questa pianura troppo piatta.

Le mie montagne, così lontane, ma sempre vicine alla mia anima hanno avuto il potere, come sempre del resto, di riconciliarmi con me stessa, di regalarmi un po’ di serenità.

Piani di Artavaggio tra San Silvestro e Capodanno