Archivio mensile:Febbraio 2011

The King’s speech.

Ieri sera, insofferente all’ennesima partita di calcio alla televisione (ma quante partite si giocano in questo paese?), innervosita da una giornata uggiosa passata tra le faccende domestiche e un po’ di sana lettura, ho deciso di andare al cinema per vedere il film candidato a ben dieci oscar.

A dir la verità ho dovuto sopportare gli alti lai di mio figlio che magnificava la versione in lingua originale e che non ha brontolato per tutta la durata del film per pura cortesia.

Effettivamente un film basato tutto sulle difficoltà di eloquio del re Giorgio VI e sul rapporto con il suo logopedista avrebbe richiesto la visione in lingua inglese, ma, almeno per la prima volta, non me la sono sentita di beccarmi due ore abbondanti di sottotitoli (la mia conoscenza della lingua non mi consente di assistere ad una proiezione del genere senza qualche patema).

Lamenti del figlio a parte il film mi è piaciuto parecchio e mi hanno particolarmente emozionato le immagini del popolo inglese raccolto intorno alla radio mentre il sovrano pronuncia il discorso dell’entrata in guerra contro la Germania.

L’interpretazione di Colin Firth mi è sembrata di altissimo livello (da oscar appunto) così come quella di Geoffrey Rush, molto credibile nella parte del logopedista.

Autoaccusa.

Qualche giorno fa assistevo trasecolata all’intervista di due genitori (o almeno affermavano di essere tali) che, posti di fronte al quesito su come avrebbero reagito se alla figliola fosse stato offerto di partecipare ad una festa in una nota villa sita dalle mie parti, rispondevano candidamente che non ci vedevano proprio niente di male anche perchè, affermava il padre “quei soldi lì lui li portava a casa in alcuni mesi di lavoro, mica in una notte”.

Ecco, se questi sono i principi delle famiglie e i valori che io devo insegnare, ammetto che mi guardo bene dal farlo.

Venga signor Presidente.

Venga pure a farsi un giro nella nostra scuola (se non le fa ribrezzo aggirarsi in una scuola pubblica), venga a vedere come ci sforziamo di insegnare ai ragazzi il rispetto delle regole, il rispetto della dignità di ciascuno, la convivenza con chi non è uguale a te, l’accoglienza nei confronti degli altri.

Venga a vedere come insegniamo loro l’amore per il proprio paese, per la propria Nazione e per le istituzioni (tutte le istituzioni), magari accompagnandoli ad assistere ad un consiglio comunale aperto, o illustrando loro le bellezze di monumenti locali  sconosciuti o dimenticati.

Venga anche a vedere come continuiamo con mezzi sempre più di fortuna (decimati dai tagli e dai furti) ad insegnare italiano, storia, geografia, matematica e le lingue comunitarie, e la musica, e l’arte, e la tecnologia e lo sport.

Venga a vedere se trasmettiamo valori contrari a quelli delle famiglie o se educhiamo secondo principi diversi dalla pace, dalla solidarietà, dall’uguaglianza.

Venga a vedere, altrimenti si astenga da dare giudizi.

Amicizie e amici.

Non è bello e non è elegante dimenticarsi degli amici nel momento del bisogno, ma qualche volta è legittimo prendere le distanze: anche perchè non vorrei che si pensasse che essere amici dell’Italia ( o di qualche italiano in particolare) porti sfiga.

Si potrebbe cominciare ad avanzare la timida proposta che vengano ristampati i passaporti libici.

Per esempio.

Ci vorrebbe un po’ di sincerità.

A proposito del 17 marzo (e della celebrazione dell’unità nazionale) ne ho sentite di tutti i colori: “si celebra”, “non si celebra”, “è festa nazionale”, “si sta a casa da scuola e dal lavoro”, “no si va a scuola e a lavorare perchè l’economia non può permetterselo”, “però si celebra sul posto di lavoro”, “non ha senso celebrare i 150 dell’unità nazionale visto che, per alcune regioni si è verificata solo molto più tardi” e via discorrendo.

Siamo sinceri, per una volta, si tratta di una ricorrenza che vede molti indifferenti e altri infastiditi e allora è inutile nascondersi dietro posizioni “virtuose”, all’ombra di una religione del lavoro e della produttività che scopriamo solo quando ci fa comodo diciamolo chiaramente che non ci emoziona l’idea di essere una Nazione di stringerci intorno alla bandiera (quella tricolore per la cronaca), diciamolo francamente che Garibaldi (come affermano molti) avrebbe fatto bene a starsene nell’America del Sud, che Cavour era un intrigante e Mazzini un povero sognatore.

Però diciamolo e non accampiamo altre scuse.

Tricolore

Un inno giovane.

Scrivo a pochi attimi dalla conclusione della performance di Benigni al festival di Sanremo ancora emozionata e un po’ commossa per il fervore con il quale ha raccontato il nostro inno nazionale.

Da molti anni, ormai, mi sono impegnata ad insegnare il Canto degli Italiani ai miei allievi, spiegando anche le altre strofe, quelle che non si cantano mai, spiegando che è la vittoria la schiava di Roma (e non l’Italia) e precisando che non ci stringiamo a “corte”, ma a coorte; mi sono sempre impegnata a insegnarlo  anche perchè a me l’inno nazionale piace, mi commuovo quando viene eseguito perchè ho sempre intuito che coloro che lo cantavano, tanti anni fa ci credevano davvero ed erano veramente pronti alla morte.

Benigni però, questa sera mi ha fatto riflettere su un dettaglio che mi era sempre sfuggito, forse anche per colpa delle illustrazioni del mio sussidiario delle elementari che rappresentavano gli eroi del Risorgimento come austeri barbuti signori, Benigni mi ha ricordato che Mameli, come tanti volontari, era un ventenne, che i patrioti (come Silvio Pellico che finì allo Spielberg quando aveva l’età di mio figlio o Pietro Maroncelli che di anni ne aveva solo venticinque) erano giovani uomini che mettevano in gioco la loro vita per amore di una cosa, talora sottovalutata, come la Patria.

Grazie Roberto per avermi ricordato che il nostro paese è nato dal sacrificio di tanti giovani.

In attesa dei calzerotti fucsia.

Non provo invidia per i tre magistrati ( per ironia della sorte donne) incaricati del processo al premier fissato per il 6 aprile prossimo.

Immagino che nei prossimi giorni la loro vita e la loro carriera saranno rivoltate come un calzino alla ricerca di qualche elemento che potrebbe renderle vulnerabili o metterle in una luce non completamente positiva agli occhi del pubblico.

In fondo qualcosa di simile è già successo nei confronti di un altro magistrato, giudicato strambo e stravagante sulla base di comportamenti perfettamente normali e dell’abbigliamento magari non propriamente glamour.

E se proprio non ci sarà niente da scoprire (mica tutti hanno degli scheletri negli armadi) si potrà sempre appuntare l’attenzione su qualche particolare del look.

Che ne so, magari si potrebbero scoprire degli orripilanti (e colpevoli) calzerotti fucsia.

Le parole in “ismo”.

Non mi piacciono le parole in “ismo” perchè hanno  un vago senso di negatività soprattutto quando il suffisso in questione si attacca a concetti che hanno a che fare con i comportamenti , sono parole deformi che mutano profondamente il significato del vocabolo da cui derivano fino a stravolgerne il contenuto.

Così, se non abbiamo nulla da ridire riguardo alla “morale” il “moralismo” assume una connotazione negativa, diventa spesso un giudizio di merito, il “moralista” è considerato colui che condanna i comportamenti altrui, salvo poi comportarsi (o desiderare di comportarsi) in modo analogo, animato da una sorta di viscido “vorrei ma non posso”.

Si è parlato molto di moralismo, in questi giorni, probabilmente per non parlare di morale (che è pur sempre una parola scomoda e parecchio desueta), ma è un’etichetta che rifiuto, che non mi appartiene, perchè è una parola che viene pronunciata con un sorrisetto complice e un po’ compiacente.

Ritengo morale (e non moralista) pretendere che chi ha responsabilità pubbliche si comporti in modo corretto, soprattutto perchè chi ha responsabilità pubbliche vive in una casa con i muri di vetro e i suoi comportamenti sono un modello per gli altri.

Ricordo che, qualche tempo fa, un’insegnante è stata sospesa dal servizio perchè, nel suo tempo libero, nel suo stretto ambito privato, si esibiva in locali notturni e in fondo, a voler ben guardare, i suoi comportamenti avevano riflessi solo su un numero limitato di ragazzi, sui suoi allievi.

Non mi sembra che nessuno si sia stracciato le vesti perchè si trattava di scelte private, operate al di fuori dell’ambito delle sue responsabilità professionali.

Ecco: a me sembra morale ( e non moralista) pretendere che tutti siano trattati con lo stesso metro.

Questi ragazzi derubati.

I ladri che la scorsa notte (o forse la precedente) si sono intrufolati subdolamente nella mia scuola e hanno rubato i portatili delle lavagne multimediali, gli strumenti musicali, i videoproiettori, i videoregistratori e tanto altro materiale didattico non hanno commesso un semplice (quanto deprecabile) furto di oggetti, ma hanno derubato i miei ragazzi della possibilità di lavorare, studiare, imparare e crescere in modo efficace.

Bastava guardare le loro faccine un po’ smarrite davanti a quel tavolino vuoto, con i cavi miseramente pendenti nel nulla, per leggere il loro smarrimento: “e adesso” mi chiedevano “come facciamo?”.

Qualcuno potrebbe osservare che si è sempre studiato senza tante diavolerie tecnologiche, ma tornare a lavorare solo sui libri (soprattutto in una classe come la mia dove molti libri non sono neppure stati adottati) è un gran bel passo indietro

Non so quanto ricaveranno i ladri dalla vendita di materiale informatico vecchiotto e sicuramente non all’avanguardia (siamo una scuola, mica la N.A.S.A.), so però che il danno per i ragazzi è enorme proprio perchè siamo una scuola e dalle nostre parti di soldi ne girano veramente pochi perciò tentare di ripristinare il maltolto richiederà tempo e fatica.

Rubare in una scuola è un gesto vile e stupido perchè, soprattutto di questi tempi, gli scolari sono i più poveri di tutti.