Archivio mensile:Giugno 2009

C’è chi è più uguale degli altri.

Mentre si concretizza la possibilità che l’età pensionabile delle donne della pubblica amministrazione sia equiparata a quella dei maschietti (che per me significherebbe lavorare fino a sessantadue anni), mentre affronto quotidianamente un lavoro che richiede le energie fisiche e nervose che ormai sono ben lungi dall’avere, mentre mi arrabatto per conciliare il lavoro (che pure mi piace) con la cura di mia madre cieca e afflitta dal morbo di Parkinson leggo la notizia che i dipendenti pubblici della regione Sicilia possono andare in pensione dopo venticinque anni di attività (se uomini) e dopo venti ( se donne).

Mi chiedo da che parte stia la giustizia visto che, se fossi una dipendente della regione Sicilia, sarei già in pensione da secoli e senza neanche bisogno di adottare una mamma invalida.

Mi chiedo anche cosa ne pensi l’Europa.

(Qualche giorno fa avevo dichiarato di aver mandato in ferie il cervello e di non leggere i giornali: se le notizie sono queste è meglio continuare così, almeno per non rovinarsi il fegeto)

Ai confini dell’Impero.

Una delle cose che amo della vacanza in montagna è che qui mi trovo veramente in una terra ai remoti confini dell’Impero, guardo poco la televisione e sfoglio con pigrizia il giornale perciò le notizie arrivano rarefatte, non so quasi nulla dei dibattiti del Lingotto, non ho aggiornamenti sull’affaire di Bari e persino il lontanissimo e tribolato Iran sembra ancora più lontano.

Non si tratta tanto di una dificoltà reale, non sono così scollegata da tutte le forme di comunicazione, si tratta di una condizione mentale, quasi di un desiderio di isolamento: mi piace stare qui, lasciarmi lambire dall’onda lunga delle notizie, senza buttarmi a capofitto nel mare magnum dell’informazione.

Mi sento un po’ come quando, da ragazza, viaggiavo nei paesi dell’est dove era abbastanza difficile trovare un quotidiano italiano (se non in qualche areoporto di qualche capitale) e al ritorno, appena passata la frontiera, acquistavo un giornale nel primo autogrill.

Allora tutte le notizie più recenti mi piombavano addosso, ma ero consapevole di essermi persa dei pezzi, magari importanti e comprendevo che di alcune vicende avrei capito ben poco, ma non mi dispiaceva perchè ciò che merita di essere raccontato entra prima o poi nei libri di storia, altre notizie , destinate a non lasciare traccia, scivolano via come polvere.

Allora mi prendo questa vacanza, anche mentale, tanto le notizie veramente importanti arrivano anche qui, in questa landa remota….

In questa valle.

Ho trascorso le mie vacanze estive inquesta valle in da quando avevo poche settimane e i miei (allora) giovanissimi genitori si sobbarcarono la non indifferente spesa dell’affitto di una stanzetta perché ero una bimba dalla salute delicata e  l’afa estiva della città mi impediva di mangiare e dormire.

Fin da quando ero piccola alla fine di giugno lasciavo la città con la mia mamma, mentre mio padre restava al caldo a lavorare e ci raggiungeva per il fine settimana con un ansimante motorino.

Di quegli anni ho vaghi ricordi, ravvivati dalle tantissime fotografie scattate da mio padre, ricordo il cane nero del padrone di casa, di nome Dog, che era il mio pazientissimo compagno di giochi e seguiva mio padre nei boschi e nelle passeggiate in montagna: se dormivamo in rifugio si acquattava sotto la mia cuccetta dove potevo raggiungerlo con la punta delle dita e accarezzarlo come un gigantesco tenerissimo peluche.

Ricordo le camminate epiche, i mutamenti di tempo improvvisi, la nevicata che ci bloccò, in pieno agosto, per due giorni nel rifugio ai piedi del Pizzo dei Tre Signori.

Gli anni sono passati, è nato mio fratello, siamo cresciuti tra queste montagne condividendo giochi e ricordi, poi, quando sono diventata adulta, mi sono sposata ed è nato mio figlio mi è sembrato naturale tornare quassù.

Ora, in questa nuova età della vita, torno tra queste montagne ogni anno, qui ci sono i  miei ricordi più gioiosi, qui rivedo i miei genitori giovani e bellissimi, qui ritrovo la felicità della mia infanzia, le scoperte dell’adolescenza, la quieta dolcezza dell’età matura, qui trovo la forza nel riposo.

Non si tratta solo di vacanza, ma di un pezzo di vita.

moggio

Compiti per le vacanze.

Il solito temporale serale ha suggellato la fine dell’ultimo collegio docenti dell’anno (scolastico 2008/09, naturalmente) e tutti quanti siamo usciti da scuola garruli e frettolosi come scolaretti in vacanza (se i nostri allievi sapessero…).

Ho preparato le valigie e dentro  ho messo anche l’elenco dei compiti per le vacanze: è un’abitudine antica che mi trascino dai tempi della scuola (visto che dalla scuola non me ne sono mai andata mi sembra naturale).

  • Leggere  alcuni romanzi di Mendoza: compito assegnato dalle disperatissime lettrici del mio gruppo di lettura.
  • Studiare i regolamenti del consiglio comunale (è ora di cominciare a fare sul serio).
  • Preparare il materiale per il prossimo anno (scolastico): visto e considerato che non ho fatto acquistare l’antologia e il testo di geografia sarà utile cominciare a studiare come affrontare lo studio senza i testi.
  • Camminare, comminare, camminare perché camminare in montagna mi fa bene, mi rilassa e mi permette di far lavorare le piccole cellule grige (come diceva Poirot).
  • Fare qualche foto interessante perchè attraverso le immagini riesco ad esprimere meglio le mie sensazioni.
  • Aggiornare il mio blog (anche se so già che imprecherò contro la connessione lentissima)
  • Mangiare formaggi d’alpeggio perché fa bene alle ossa (…e poi mi piace, alla faccia del colesterolo).
  • Dormire.

Ecco i miei compiti, sono pronta ad affrontare l’estate.

Il pubblico e il privato.

Ho lasciato passare molti giorni da quando ha preso consistenza “l’affaire” legato alle frequentazioni di Villa Certosa e Palazzo Grazioli e l’ho fatto volutamente perché provo un senso di profondo fastidio persino ad affrontare l’argomento.

L’unica cnsiderazione che mi sento di fare è che non credo si possano fare distinzioni fra pubblico e privato quando si ha a che fare con personaggi che rivestono ruoli di rilievo nella vita del nostro paese.

Chi riveste un ruolo pubblico vive in una casa di vetro, sa che i suoi comportamenti e le sue parole sono analizzati in modo approfondito, rivoltati come un guanto e giudicati.

Chi riveste un ruolo pubblico sa che, purtroppo o per fortuna, diventa involontariamente un modello di comportamento per gli “altri”, per coloro che lo osservano e hanno a che fare con lui.

Nella mia esperienza quotidiana, pur rivestendo un ruolo “pubblico” di infimo livello, so benissimo che i miei allievi osservano i miei atteggiamenti e giudicano i miei comportamenti, so benissimo che non posso pronunciare le “parolacce” che fanno parte del loro linguaggio abituale, perché una parolaccia detta dalla prof dà scandalo, so benissimo che devo mantenere un rigido autocontrollo, che non posso mandare a quel paese chi vorrei, che non posso neppure vestirmi come vorrei, che è meglio che non indossi abiti troppo scollati o gonne troppo corte (e non per motivi squisitamente estetici).

D’altra parte sono perfettamente consapevole di essere un “modello”, ho ben chiaro che non posso appellarmi al “fate come dico, ma non fate come faccio”, perchè diventerei automaticamente meno autorevole e meno credibile.

Essere un “personaggio pubblico” talora è un privilegio, ma implica una responsabilità tanto più grande quanto più grande è il ruolo che si ricopre.

Per questo motivo mi infastidiscono le notizie di questi giorni, perchè continuo ad aspettarmi che chi ha responsabilità più grandi delle mie sia anche migliore di me.

Non sono sparita….

Semplicemente non ho scritto per un paio di giorni perchè ho dovuto risistemare nel nuovo scaffale qualche metro cubo di libri, l’esercizio è semplice: afferra qualche chilo di volumi, scala, gradino, gradino, gradino (in salita), disponi sullo scaffale i libri, gradino gradino, gradino (in discesa), piegamento, raccogli i libri e avanti così per ore (c’è gente che paga per fare un allenamento simile in palestra).

Alla fine tutto è tornato in ordine tranne la mia schiena, avrei voluto accasciarmi sul divano e invece, ieri sera, c’era la prima seduta del consiglio comunale.

Così mi sono trascinata nella doccia, mi sono data una sistemata e sono uscita di casa alla volta del municipio.

Sarò un’inguaribile romantica o, più semplicemente, una persona dotata di un profondo rispetto per le istituzioni, ma varcare l’ingresso della sala consigliare mi ha provocato un po’ di emozione.

Ho cercato il mio posto (riconoscibile dal mio nome scritto sulla cartelletta rossa che fa tanto primo giorno di scuola) e mi sono seduta dando un’occhiata curiosa ai miei vicini (con i quali ho condiviso una lunga campagna elettorale) e al pubblico.

Il primo consiglio comunale prevede alcune procedure rituali: l’appello dei consiglieri, la ratifica, il giuramento del Sindaco, la nomina del Presidente, degli assessori, del vicesindaco e dei membri di alcune commissioni nonché l’attribuzione delle deleghe ad alcuni consiglieri: nulla di particolarmente emozionante, ma una serie di passi necessari perchè la macchina amministrativa si metta in moto.

Ora, con le vacanze imminenti e il rallentamento delle attività, c’è il tempo di studiare la documentazione e di familiarizzarsi con procedure e leggi: si comincia a lavorare.

Potere e dignità.

Nella mia famiglia si parlava spesso, con grande deferenza, di Enrico De Nicola: il primo Presidente della Repubblica, eletto dall’Assemblea Costituente come capo provvisorio dello Stato.

I miei genitori ne parlavano (è incredibile, ma si parlava anche di questo in casa mia) come di un esempio di onesta e di dignità: il suo cappotto sdrucito e rivoltato era diventato il simbolo di un’Italia povera e vinta, ma estremamente dignitosa e capace di trovare la forza di rialzarsi dalla miseria.

Anche in casa mia si rivoltavano i cappotti e si usavano i vestiti dismessi dai cugini maggiori di età, eravamo poveri, ma la povertà, diceva mio padre, non doveva farci arrossire, ci si doveva solo vergognare dei comportamenti sbagliati e disonesti.

Questi sono i principi nei quali sono cresciuta per questo mi infastidisce pensare al potere politico mischiato al lusso e al privilegio: sono stata allevata nell’idea che la politica sia un servizio ai cittadini e non una “carriera” più o meno brillante e redditizia.

Qualcuno potrà obiettare che ho una visione del mondo da “Alice nel paese delle meraviglie”, che sono legata ad un passato remoto che non può esistere ai nostri giorni, ma io penso che  chi considera “normale” l’ondata di fango che sta abbattendosi, in questi giorni, sulla politica si è già rassegnato a non immaginare un cambiamento.

Mi fa una grande tristezza chi non sa più indignarsi, chi non sa più sognare un mondo migliore.

Noi ad Atene…

“Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: per questo è detto democrazia.

Quando un cittadino si distingue, allora egli sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, non come un atto di privilegio, ma come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.

(dal Discorso di Pericle agli Ateniesi)

Certo questo accadeva nell’ Atene di Pericle, forse sarebbe ora che la nostra tanto bistrattata democrazia si ispirasse a questo modello.

Al voto, al voto.

Ho sempre ritenuto il voto un mio preciso diritto-dovere e, da quando ho compiuto il ventunesimo anno d’età (sì perché ai miei tempi non si diventava maggiorenni a diciotto), ho sempre votato per ogni tipo di elezione e di referendum e ho svolto, per diverse tornate, la funzione di presidente, scrutatore e segretario dei seggi.

Per quanto riguarda il referendum di domenica prossima, però, sono decisamente in difficoltà, un po’ perché ormai da tempo immemorabile è praticamente impossibile raggiungere il quorum, un po’ perchè l’abolizione del premio di maggioranza alle coalizioni, in caso di vittoria elettorale, lascia spazio ad un premio di maggioranza ad una singola lista (il che mi sembra decisamente peggio), potrei forse impegnarmi per il terzo quesito referendario perché ho sempre considerato ridicolo che un candidato possa presentarsi in diverse circoscrizioni (stile dono dell’ubiquità) con l’evidente intento di lasciare poi il posto ad un “primo dei non eletti” gradito.

Il senso di frustrazione deriva anche dal fatto che troppo spesso i quesiti referendari riguardano un singolo articolo, un aspetto molto tecnico, e troppo spesso consistono nell’abrogazione di una piccola parte della norma che lascia la legge zoppicante.

Forse è questo aspetto, oltre ai reiterati inviti in consultazioni ormai lontane a disertare i seggi ed andare al mare, che ha provocato il disamore dei cittadini per lo strumento referendario: l’impressione molto fondata di non esprimere un parere su una legge (mi piace, non mi piace), ma di incidere solo marginalmente sul testo.

Comunque non ho ancora rimesso nel cassetto il certificato elettorale: ci penserò domenica….

Il dovere di insegnare.

Trapelano da più parti notizie di un incremento consistente del numero dei bocciati nelle scuole superiori, ma anche nella scuola media e, almeno per esperienza diretta, posso affermare che c’è del vero: anche nella mia scuola si è bocciato di più rispetto agli scorsi anni.

Qualcuno fa notare che un maggior numero di insuccessi depone a favore di una scuola più seria, più rigorosa nella quale il merito è il metro di misurazione dei risultati, altri osservano che una maggiore permanenza degli studenti all’interno del sistema scolastico rischia di drenare ulteriormente i fondi già esigui destinati all’istruzione pubblica: statisticamente uno studente rappresenta un costo per anno quindi è evidente che ogni anno ripetuto significa un aumento dei costi.

Io però vorrei affrontare il discorso alla radice: a mio parere una scuola che boccia non è una scuola seria, ma una scuola che ha abdicato al suo dovere di insegnare e di educare, una scuola che fa ricadere i propri insuccessi sui ragazzi, che non ha saputo motivare gli studenti, che non ha saputo svolgere il suo lavoro che consiste nel tramettere conoscenza e nel far crescere.

Quando, durante la mia carriera, mi è capitato di decidere per una bocciatura (ed è successo raramente)  non l’ho mai fatto a cuor leggero, ma mi sono sempre chiesta dove ho sbagliato, dove non sono stata all’altezza del mio compito, quali strategie avrei potuto adottare e non ho adottato.

Una scuola che boccia non è una cosa di cui vantarsi, è l’ammissione di una sconfitta: ricordiamocene ogni volta che sentiremo parlare di serietà e rigore.