Negli anni cinquanta, quando ero bambina, l’altopiano della Valsassina era percorso da una lunghissima condotta che, a quanto mi risulta, raccoglieva le acque dei vari torrenti che percorrevano i fianchi dei monti e le convogliava verso le industrie di Lecco (mi sembra che si trattasse, in particolare della Moto Guzzi di Mandello del Lario).
Gli abitanti del luogo, e di conseguenza i villeggianti, chiamavano il lungo serpentone di cemento che si snodava fra i boschi “la diga” anche se in realtà con una diga non aveva nulla a che fare.
Quando non eravamo impegnati in escursioni più impegnative la percorrevamo per lunghissimi tratti (anche perché era un tragitto agevole per chi, come mia madre, doveva spingere un passeggino ingombrante, come quello con il quale portava in giro mio fratello).
Io camminavo con attenzione, per paura di cadere, dando la mano a mio padre il quale mi aiutava a superare i tratti dove mancava una lastra di cemento (probabilmente perché spezzata o per permettere la manutenzione e la pulizia della condotta).
Ogni tanto bisognava percorrere i bordi di un bacino di raccolta, allora il passaggio si faceva più stretto e richiedeva maggiore prudenza.
Poi la condotta è andata i disuso, i bacini sono stati demoliti, buona parte del tracciato è stato coperto dalle frane o dalla vegetazione, distrutto dalla costruzione di strade e case, così non ho avuto più occasione di percorrerla.
Solo qualche giorno fa, aggirandomi nei boschi del paese dove trascorrevo le vacanze da bambina, a pochi chilometri da dove le passo oggi, ho ritrovato la vecchia “diga” e, di colpo, ho rivisto la mia infanzia, ho rivisto i miei genitori ancora giovani passeggiare tenendo per mano due bambini irrequieti e vivacissimi, ho risentito il sottile brivido di paura e di eccitazione che mi prendeva quando dovevo superare i punti più difficili.
Ora ne restano poche centinaia di metri che si snodano attraverso il bosco…poche centinaia di metri di ricordi.