Archivio mensile:Gennaio 2007

Bon anniversaire Beaubourg.

Nell’agosto del 1978, durante un viaggio di nozze rimandato di alcuni mesi (ci eravamo sposati nell’ottobre del 1977) decidemmo di visitare Parigi, la città, almeno allora, romantica per antonomasia.

Il mio allora giovane marito era un fanatico dell’arte contemporanea e mi trascinò, un po’ riluttante, a visitare il Centro nazionale d’arte e di cultura Georges-Pompidou, inaugurato l’anno precedente.

Io avevo un’idea un po’ più tradizionalista dei musei, ero abituata a visitare prestigiose collezioni ospitate in palazzi vetusti e carichi di storia, come gli Uffizi o Brera, e commentai un po’ ironicamente quello strano edificio che, nonostante il tocco del genio di Renzo Piano, sembrava ancora in costruzione con i ponteggi ancora montati sulla facciata.

In realtà mi innamorai ben presto del Beaubourg (tra amici ci si chiama per soprannome) e ogni volta che sono stata a Parigi non ho mai tralasciato di visitarlo.

Mi innamorai del suo aspetto, colorato ed allegro, mi innamorai dei suoi tesori: Matisse, Picasso, Chagall, Utrillo e Kandinski raccolti e proposti in spazi inusuali.

Oggi il museo, diventato ormai un maturo signore, compie trent’anni perciò…buon compleanno Beaubourg!

beaubourg

Ma io dov’ero….?

Quando ero bambina e i miei genitori e nonni raccontavano qualche episodio della loro vita precedente la mia nascita chiedevo sempre, in modo abbastanza offeso, “ma io dov’ero?”, quasi mi rattristasse l’idea di non essere parte della narrazione, di essere in qualche modo esclusa da qualcosa che aveva coinvolto i miei cari.

Sarà stata forse smania di protagonismo, sarà stato forse perché il mio “io” ne usciva con le ossa rotte, ma provavo una strana nostalgia per tutte le cose che non avevo visto e conosciuto, per quel pezzo della vita dei miei cari che mi mancava.

Poi mi è passata, tuttavia, ancora adesso, quando sento raccontare un evento storico, mi chiedo dove fossi in quel momento, mi chiedo se, allora, avessi compreso l’importanza di ciò che stava accadendo o se, come spesso capita, fossi così assorbita dalla mia quotidianità da non rendermene conto.

10 ottobre 1963: sono a scuola, la maestra ci mostra il Corriere della Sera con la foto di una diga che dal nome mi sembra straniera, è la prima volta che sento la parola Vajont, capisco che è una grande tragedia, alla sera la televisione trasmette un’ingenua animazione di un pezzo del monte Toc (che nome buffo, in milanese significa “pezzo”) che scivola abbastanza dolcemente nell’acqua del lago artificiale…e l’acqua schizza fuori.

22 novembre 1963: sono seduta per terra in sala da pranzo, è sera, guardo distrattamente la televisione, ho circa dieci anni e sto giocando con le costruzioni, il telegiornale trasmette la notizia dell’assassinio del presidente Kennedy, mi arrabbio perchè non trasmetteranno Carosello.

21 agosto 1968: abbiamo trascorso la notte in rifugio, il rifugio Grassi ai piedi del Pizzo dei Tre Signori. per due giorni non abbiamo visto nè televisione, nè giornali, appena giunti a valle comperiamo il Corriere: le truppe sovietiche hanno invaso la Cecoslovacchia, i fiori della Primavera di Praga sono appassiti. Ho quindici anni, ho già delle idee, avevo fatto il tifo per la rivoluzione pacifica che aveva acceso gli animi a Praga, mi sento amareggiata e delusa.

21 luglio 1969: sono seduta sul divano, è notte, ho gli occhi incollati alla televisione, Tito Stagno e Ruggero Orlando continuano a parlare e Neil Armstrong cammina sulla luna.

9 novembre 1989: sono al telefono, un ragazzino è scappato da scuola e, finalmente, mi confermano che è stato ritrovato sano e salvo, tiro un sospiro di sollievo e intanto guardo distrattamente i cittadini di Berlino est che varcano finalmente il muro.
Sono contenta, qualche anno prima ero stata a Berlino, ho degli amici a Berlino est e immagino la loro gioia e il loro stupore, eppure sono ancora assorbita dal trauma per la fuga del ragazzino, non riesco ad essere completamente felice e mi inquieta l’idea di non riuscire a “vedere” l’importanza di ciò che sta capitando.

Non so se sia strano o perfettamente normale, ma i miei ricordi più vivi sono legati in modo indissolubile alla mia quotidianità e mi stupisce sempre scoprire come la Storia (quella con la s maiuscola) si intrecci inevitabilmente con le nostre piccole storie di tutti i giorni.

DSCF0114

Un mondo a colori.

Giglio martagon

Sarà la bella giornata, il sole splendido, il cielo pulito, ma mi sento in vena di slanci lirici. Oggi è una giornata in cui il mondo mi sembra a colori (non che negli altri giorni lo veda in bianco e nero, ma insomma: provate una giornata di nebbia in Val Padana…).

In giornate come questa, magari non proprio nel mese di gennaio, mi armo di macchina fotografica e vado in giro in cerca di cieli e fiori.

Forse si è capito dalle foto nel mio blog che mi piace fotografare il cielo, soprattutto quando ci sono nuvole “interessanti”.

L’altro soggetto che amo fotografare sono i fiori.

In primo luogo perché vorrei portarmeli a casa, ma non mi sembra giusto raccoglierli, anche quelli non protetti dalla legge, perché il fiore reciso avvizzisce in un attimo, poi sono dei soggetti ideali perché stanno immobili (in assenza di vento) e hanno forme e colori di incredibile armonia, anche quelli più piccoli e più comuni.

Spesso l’obiettivo riesce a cogliere un microcosmo, che l’occhio non vede o trascura, allora compaiono, come per magia, minuscole venature, incredibili simmetrie, accostamenti cromatici arditi.

La mia naturale curiosità, inoltre, mi spinge poi a studiarli per conoscerne il nome, la varietà e le caratteristiche.

In breve ho imparato a riconoscere centinaia di fiori, ad apprezzarne la rarità, al di là del puro aspetto e ad attenderli, nel loro ritorno stagionale, perché ormai riesco a prevedere dove e quando li incontrerò di nuovo.

elleboro

I grandi misteri…

Ogni tanto succedono dei fenomeni, che sfiorano il paranormale, che mi lasciano perplessa e piena di interrogativi inquietanti, poi, siccome sono un po’ psicolabile, me ne dimentico e continuo a vivere serenamente come se nulla fosse successo.

Quando invece alcune situazioni si ripresentano puntualmente diventano, almeno in casa mia, argomento di studio e di dotte dissertazioni che fatalmente non portano a nessun risultato apprezzabile.

E’ il caso della televisione che vive di vita propria.

In casa mia, come penso in tutte le case, c’è un televisore piuttosto grande che troneggia in sala da pranzo, poi, visto che non siamo accaniti telespettatori, ne abbiamo uno minuscolo e antichissimo in cucina, che viene acceso molto raramente, di solito quando decido di stirare dopo cena.

Quando scrivo “antichissimo”, intendo proprio antichissimo, basti pensare che apparteneva a mia nonna che, pace all’anima sua, è morta quindici anni fa, e già quando era in suo possesso era vecchio e di seconda mano.

Vi chiederete perché mi ostini, visti i prezzi degli apparecchi televisivi, a conservare un pezzo da museo; la risposta è semplice: perché è l’unico televisore, fra tutti quelli che abbiamo invano provato, che riesca a ricevere un numero esorbitante di canali pur non essendo collegato all’antenna centralizzata.

Gli altri che abbiamo testato, messi nella medesima posizione e nelle stesse condizioni, si limitavano a prodursi in ronzii, fruscii e scariche per nulla interessanti: e questo è già, di per sè, un fatto anomalo.

Ma la cosa più interessante consiste nel fatto che il nostro reperto archeologico si accende solo nelle giornate calde, se fa freddo proclama lo sciopero ad oltranza e resta muto e spento.

Capirete che un televisore a mezzo servizio è meglio di uno ronzante, ma non è pratico dover consultare il termometro e non il giornale per decidere se guardare o no la televisione.

Dopo lunghi ragionamenti e tentativi abbiamo scoperto che, per garantirsi l’accensione, è sufficiente dargli una bella passata col phon (avete capito bene l’asciugacapelli).

Per questo motivo, a casa mia, se decidiamo di vederci un programma in cucina, in una giornata invernale, ci armiamo di santa pazienza e facciamo la messa in piega al televisore.

E’ un brutto momento quando….

E’ davvero un brutto momento quando…

  • Una giovane collega ti apostrofa con la frase:”lei che ha tanta esperienza…”
  • Scopri che il giovane collega, appena entrato in ruolo, è un tuo ex allievo.
  • Scopri di avere in classe dei figli di ex allievi.
  • Scopri che i tuoi allievi non conoscono la musica che ti piace (…per esempio i Pink Floyd)
  • Scopri che neanche i tuoi colleghi più giovani conoscono la musica che ti piace.
  • Usi una frase gergale che nessuno riconosce (perché era un tormentone 15 anni fa).
  • Vedi espressioni perplesse quando citi Don Milani

Potrei continuare per ore, ma probabilmente cadrei in depressione e allora?

Rassegnarmi all’idea che il tempo passa mi sembra più che naturale, ma mi piacerebbe che passasse un po’ meno velocemente e\o in modo meno traumatico.

Solo ieri è cominciata una nuova settimana e domani è venerdì.

Solo ieri sono entrata nella scuola con la nomina del Provveditorato tra le mani, ma non esistono più i Provveditorati (da un po’ di anni non si chiamano così).

Solo ieri ho compiuto ventun’anni (..e sì, ai miei tempi si diventava maggiorenni a quell’età).

O forse non era ieri, era una vita fa.

fiori

E allora mi convinco che anche se il mio aspetto non è più quello di allora, anche se il mio look è più da “sciura”, anche se il mio modo di agire è meno impulsivo e prima di partire in quarta mi soffermo a riflettere ( e poi comunque parto in quarta), il mio spirito è ancora quello.

Sono ancora libera, non mi piace l’ingiustizia, non mi piace l’arroganza, non mi piace il pregiudizio, ma soprattutto sono ancora pronta a battermi per le cose in cui credo.

E tu?

Quando è “un brutto momento” per te?

In una vecchia fotografia.

Ho una passione esagerata per le vecchie fotografie, infatti qualche volta le ripesco e le inserisco nei miei post.

Da tempi immemorabili, in casa mia, le vecchie fotografie vengono conservate in alcune scatole di legno, per intenderci quelle dei vini pregiati, riposte, insieme ad alcuni album di matrimoni e alle diapositive, nell’armadio della “memoria”.

Fin da quando ero bambina, ogni tanto, aprivo gli scrigni dei tesori e passavo in rassegna le foto, chiedendo agli adulti di casa i nomi e le storie delle persone raffigurate.

Si trattava di soldati della prima guerra mondiale tutti impettiti, signore in crinolina, bimbe “ingessate” nell’abito della prima Comunione, signori baffuti e borghesi seduti su improbabili sedie Savonarola.

Tutte le fotografie erano stampate su cartoncini rigidi, con un colore virato sul seppia, incorniciate da fregi liberty e recavano orgogliosamente il nome e l’indirizzo del fotografo.

Poi c’erano le istantanee, minuscole, con i bordi dentellati, stampate su carta lucida e leggera, con le immagini spensierate di gruppi di giovani, apparentemente in vacanza, apparentemente felici, ma accanto a quelle le foto che mio padre aveva scattato nel deserto della Libia, durante la seconda guerra mondiale.

Io chiedevo informazioni su tutto, mi piaceva ascoltare i racconti degli adulti e immaginavo la vita delle persone ritratte, una vita che, nella mia fantasia di bambina, continuava, dopo che avevano posato per la fotografia, con gli stessi abiti e gli stessi atteggiamenti.

Non potevo sapere, allora, che le foto in studio erano artefatte, che richiedevano una lunga preparazione, che gli arredi, gli oggetti e qualche volta persino i vestiti erano di proprietà del fotografo.

Si trattava di fotografie rare, preziose, scattate per qualche occasione importante.

Quanti soldati, in partenza per il fronte, hanno affidato la propria immagine alla macchina fotografica perché i loro cari ne potessero conservare memoria?

Quante madri e nonne hanno custodito per lunghissimi anni le fotografie di bambini, ormai cresciuti, colti nella spensieratezza dell’infanzia?

E’ per rispetto verso questi sentimenti che non butto via neanche una fotografia, perché dietro ogni immagine c’è una vita vissuta, anche se abbiamo dimenticato i nomi e le occasioni.

nonno

California dreamin’

E’ passata un po’ in sordina la notizia della morte di Denny Doherty (Mamas & Papas), componente del quartetto folk-rock che ha fatto sognare un’intera generazione.

In realtà la mia generazione ha alimentato i propri sogni grazie alla cover italiana “Sognando la California” cantata dai Dik Dik nell’ormai lontanissimo 1966.

In quegli anni andavano di moda le cover italiane di canzoni inglesi o americane, un po’ perchè la lingua inglese era allora più ostica e ignota di adesso (nelle scuole ci si ostinava ad imparare il francese), un po’ perchè i gruppi, che allora si ispiravano al mondo anglosassone, potevano contare su un successo quasi scontato.

E così, in quegli anni, la California diventò un mito, ingigantito dall’enorme distanza, il mito del paradiso perduto, della terra della libertà, dove il clima è dolce e la gente sorride.

Sognavamo un mondo di suoni e colori in contrapposizione al grigiore delle periferie urbane, alla tristezza delle aule scolastiche e alla monotonia dei cieli nebbiosi.

Ognuno di noi si era inventato una “sua” California che, probabilmente, aveva poco o nulla a che fare con la realtà, ma ci bastava.

Forse sapevamo che la realtà era diversa, ma ci illudevamo che fosse vero, che esistesse un luogo, un po’ Camelot, un po’ Avalon, dove era possibile vivere in pace e in armonia.

Sicuramente il sogno fu alimentato anche dall’eco dell’epoca kennediana, che era rimasta intatta nei suoi ideali, nonostante l’assassinio del presidente.

Dscf0001

Poi sarebbe venuto il duro risveglio: gli anni della contestazione studentesca, il Viet Nam o, in fondo, il semplice evolvere della vita che ti porta dall’adolescenza alla giovinezza e poi alla maturità attraverso il crollo dei miti e la concretezza della realtà, dove non c’è spazio per i sogni.

Signori…in carrozza!

Ho letto un bellissimo post che ha risvegliato in me i ricordi di innumerevoli viaggi in treno.

Ho già avuto modo di raccontare perché non amo volare, se si aggiunge il fatto che mi rifiuto categoricamente di guidare si può capire come mai molti dei miei ricordi di viaggio siano legati al treno.

Innanzitutto il treno è comodo, c’è spazio per allungare le gambe, per sonnecchiare, per fare quattro passi, per cambiare punto di vista, poi il treno è lento (lasciamo stare l’alta velocità), permette di assaporare il paesaggio ancora prima di essere giunti a destinazione, i rumori sono ipnotici e rassicuranti.

“Mamma, perché quando ci fermiamo noi si fermano anche le nuvole?” chiedeva un bambino dopo aver osservato a lungo il mondo attraverso il finestrino.
Sul treno si può incontrare un universo di persone, spesso c’è il tempo per osservare i comportamenti, i tic, le piccole manie e si può indulgere ad immaginare le storie che si celano dietro i volti.

Tanto tempo fa sono andata a Cracovia in treno, allora da Milano si doveva raggiungere Venezia e poi Vienna dove bisognava cambiare stazione per imbarcarsi sul treno che percorreva tutta l’Europa dell’Est, da Vienna a Mosca, e che faceva coincidenza con la Transiberiana.

Era un treno stupendo che permetteva di viaggiare gomito a gomito con persone di lingue ed etnie disparate, un vero campionario di umanità condensato in pochi vagoni.

Ricordo anche un fortunoso viaggio con un treno a vapore che attraversava i monti Tatra in un’atmosfera da secolo scorso, fra foreste e paesini con le case di legno.

Amo anche i trenini svizzeri che si inerpicano sulle montagne, lustri e rossi come un modellino da plastico ferroviario, in inverno si fanno strada fra muri di neve, si arrampicano su rampe ardite (come quello del Bernina), sostano in minuscole stazioni giocattolo dove degli altrettanto minuscoli autobus gialli attendono i passeggeri per portarli in paesini fiabeschi abbarbicati sui fianchi di monti impervi.

treno svizzero

E che dire delle stazioni?

Per me l’avventura di viaggio inizia già dalla Centrale di Milano, grigia, cupa, sempre un po’ nebbiosa, che avevo imparato a conoscere fin da piccola perchè mio padre lavorava alla manutenzione dei carrelli dei giornali e delle bibite e, ogni tanto, mi portava con sè nell’immanso ventre della stazione, che per me era un mondo fantastico.

Però la stazione che amo di più è Venezia Santa Lucia: in quale altro posto al mondo è più marcato il distacco fra la realtà quotidiana e il sogno? Si scende dal treno, si attraversa l’atrio e ci si ritrova catapultati davanti al Canal Grande.

Trattengo il respiro e socchiudo gli occhi, perchè la mente stupita ha bisogno di qualche minuto per assorbire la luce e la meraviglia… e Venezia è lì, splendida e magica come sempre.

Ma non è facile farci l’abitudine.