Bulli e pupe.

Ormai sui media non se ne parla quasi più, è passato il momento (ora gli argomenti di prammatica sono lo shopping natalizio, feste di natale sì, feste di Natale no, raffreddamento del clima, riscaldamento del clima, non c’è neve, ce n’è troppa, la dieta post cenone e altre amenità consimili), la traccia è diventata fredda e i cacciatori di notizie si gettano su altri fenomeni.

Però il polverone è stato sollevato, qualcuno ha scoperto che il mondo della scuola non è un’oasi felice dove si forgiano le giovani menti di domani, qualcuno si è accorto che il disagio giovanile esiste…e tanto basta.

Passata la buriana tutto torna, più o meno, come prima.

Come già detto in altri post, non esistono ricette preconfezionate, però gli adulti coivolti dovrebbero rendersi conto che certi comportamenti altro non sono che una richiesta di aiuto, o, quanto meno, di attenzione.

Vediamo i personaggi del dramma:

I genitori sono spesso impegnati in un mucchio di cose, per carità tutte legittime, il lavoro, la casa, gli impegni sociali propri e dei figli, tutti lamentano una mancanza di tempo che, tuttavia, può diventare un alibi. Spesso non è la quantità di tempo, che si passa con i figli, quello che conta veramente, ma la qualità dell’ascolto. Un figlio chiede risposte, ma anche regole, un figlio pretende dei sì, ma anche dei no, solitamente, soprattutto quando è piccolo, richiede dei modelli di comportamento coerenti, richiede “giustizia” nelle scelte degli adulti, accetta anche i dinieghi e le proibizioni, ma devono essere motivati e non arbitrari.

Per i ragazzini la morale del “fate come dico, ma non fate come faccio” è l’atteggiamento più ingiusto e disonesto che un adulto possa mantenere nei loro confronti.

Si aggiunga poi che molti genitori sono o si sentono inadeguati, perciò preferiscono scaricare le responsabilità del loro ruolo su altri (insegnanti, allenatori, sacerdoti, psicologi e psicopedagogisti…), cullandosi nella vaga illusione che gli altri abbiano le risposte.

I genitori vivono i “fallimenti” dei figli come loro fallimenti e si ribellano scaricando sul mondo esterno colpe e problemi.

Gli insegnanti, dal canto loro, sono spesso confusi e frastornati da una serie di “innovazioni” pedagogiche che li sommergono con tonnellate di carta, schiacciati fra P.O.F., U.D.A., O.S.A,. P.E.C.U.P., e altre amenità del genere (per avere una pallida idea del problema date un’occhiata a questo articolo), perdono di vista l’importanza del ruolo educativo che dovrebbero svolgere. Il compito dell’insegnante è quello di insegnare (lo dice la parola stessa), ma ponendosi in situazione di dialogo e di crescita con gli studenti. Il rapporto umano è fondamentale per veicolare la conoscenza, non si può insegnare a tutti nello stesso modo, per decenni. Ogni ragazzo è un individuo che richiede un’attenzione personalizzata, spesso proprio per colmare i vuoti lasciati dalla famiglia.

I ragazzi si ritrovano senza modelli e senza certezze, di conseguenza spesso ritrovano la propria identità nel gruppo di coetanei, il gruppo dà sicurezze, protezione, ti permette di mimetizzarti. Se poi il gruppo adotta comportamenti sbagliati, che sono i più semplici e i più “divertenti”, allora è fatale adeguarsi. Ci vuole coraggio ad essere un “secchione”, si viene considerati diversi, non omogenei, spesso si resta soli e la solitudine fa paura.

La mia analisi è forse semplicistica, ma, come insegnante e come genitore, non mi chiamo fuori, non sto a guardare, cerco, nel mio lavoro e nella mia vita quotidiana, di dare il meglio che posso confrontandomi con i ragazzi, mettendomi cento volte al giorno in discussione, ascoltando ed accettando le provocazioni, nella consapevolezza che non posso scaricare sugli altri ciò non riesco ad affrontare.

Mi farebbe piacere discutere di questo tema…aspetto commenti.

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